Finalmente arrivò il giorno della sfida. Le tribune erano gremite di cavalieri, nel palco d'onore Violet in mezzo ai genitori, poco più sotto Kemal, Berlucco, Necario e Milady. Poco distante da loro il duca Ruperto con la sua corte, pronto a festeggiare la sconfitta di Thönet.
Stendardi, bandiere e gonfaloni coloravano la scena, le trombe riecheggiavano nella vallata.
Thönet scese in campo per primo, passò sotto la tribuna e s'inchinò ai conti fissando Violet negli occhi, quindi si posizionò alla sinistra del palco.
In omaggio alla dama di cui doveva difendere l'onore indossava un'armatura azzurra con degli inserti oro, al fianco cingeva la spada leggendaria consegnatagli da Rolfraund Erik van Volksdrang, l'armiere del castello. Sotto la cotta di maglia il pegno d'amore di Violet gli infondeva coraggio. Un antico manufatto di una strana pietra opalescente su una leggera struttura di un metallo sconosciuto, con al centro un foro. Nel mettergliela al collo lo aveva baciato teneramente sulle labbra e gli aveva detto: «Questo occhio vigilerà sul tuo cuore affinché torni per battere all'unisono col mio.».
Thõnet non era mai stato superstizioso, ma a quelle parole sentì un leggero prurito e se non avesse avuto le mani impegnate a percorrere il corpo di Violet, sicuramente ne avrebbe portata una verso l'inguine.
Lo scudo, lineare nella forma, portava al centro la sezione di un cilindro con l'immagine di un pesce, completata, nel vessillo alle sue spalle, dal motto del suo casato "A pueris necandi".
Dopo qualche minuto di attesa, nel silenzio assoluto, dal lato opposto arrivò lo sfidante, Gunnar Lotario VII, Infamia delle Quindici Nazioni. Senza sfilare davanti al palco si piazzò direttamente di fronte a Thönet alla distanza regolamentare, lo stallone nero fremente sotto di lui. Insieme costituivano una vera macchina da guerra.
L'armatura, lo scudo e le stesse armi erano nere opache e sembravano inghiottire la luce del sole. I disegni sullo scudo erano contorti in modo blasfemo: avviluppati in modo innaturale due sciacalli sormontavano un teschio da cui usciva un serpente. Sotto la celata abbassata si percepiva il freddo vuoto di un corpo sorretto da un'anima venduta a divinità sconfitte e vendicative. Lo stendardo alle sue spalle recava un'unica parola senza speranza, "Nihil".
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